Imposto dal lock-down e assunto in maniera emergenziale, lo smart working sta diventando il futuro del lavoro o quanto meno il nostro orizzonte prossimo: non sappiamo per quanto durerà ancora questa situazione e come il mondo del lavoro evolverà, ma cerchiamo insieme di mettere qualche punto fermo su cosa significa lavorare in smart working e le conseguenze che può avere.
Smart working e covid: come sta andando, per adesso, il lavoro agile
Ritrovandoci a lavorare solo da casa – magari in salotto mentre i nostri figli costruivano un accampamento sul divano - l’esperienza che un po’ tutti stiamo facendo dello smart working non è la più calzante per capire se questa modalità ci piaccia davvero o meno.
Già, perché per capire la direzione in cui ci stiamo muovendo è importante analizzare bene la situazione attuale: le maggiori criticità che vengono imputate adesso – mancanza di contatto sociale, cattiva organizzazione, reperibilità h/24 – sono tutte dovute all'uso emergenziale che abbiamo fatto dello smart working.
Ma prima di approfondire quali sono le reali potenzialità del lavoro agile, osserviamo insieme come è stato percepito fino adesso leggendo il report dell’Osservatorio sullo Smart Working del PoliMi: la ricerca, condotta proprio nel periodo del lock-down tra marzo e maggio, vuole evidenziare i cambiamenti repentini a cui hanno dovuto rispondere i lavoratori in un brevissimo lasso di tempo e come vi si sono adattati, in modo da capire quali passi sono necessari per una vera “fase due” anche dello smart working.
- Nella fase di lock-down, di maggior emergenza, i lavoratori non hanno avuto la possibilità di scegliere dove lavorare e, per tutti, smart working è diventato sinonimo di lavoro da casa
- Sul campione osservato, comunque lo smart working è stato ancora di salvezza per la grande maggioranza delle imprese: ben l’80% dei lavoratori del privato (e il 58% del pubblico) ha svolto tutte le attività lavorative senza problemi
- Prima dell’emergenza, solo il 31% dei lavoratori aveva mai usato la modalità del lavoro agile e, tra questi, solo il 13% in maniera strutturata. Al contrario, il 96% del campione analizzato adesso ha lavorato in remoto, di cui ben il 75% per tutto il tempo, 5 giorni su 5
- Le criticità legate alla situazione sono state riscontrate da tutti i lavoratori in maniera simile, anche da chi aveva già esperienza di smart working, mentre una differenza da evidenziare è quella di genere: le donne hanno riscontrato maggiori difficoltà, sia per il senso di sconforto (21% contro 13%), sensazioni di ansia e paura (22% contro il 13%) dovute probabilmente al maggior carico di lavoro domestico, cura della famiglia e dei figli. Ancora, è interessante vedere la differenza in base all'età: sono le persone più giovani, i millennials, tra i 25 e i 39 anni, ad aver avvertito maggior senso di isolamento (24%)
- Il problema maggiore a livello lavorativo, invece, è stato il senso di isolamento rispetto la propria azienda (29%), ma non verso il team di lavoro che sembra abbia retto bene la prova della distanza. Collegato a questo è l’abuso delle comunicazioni: tra chat, mail, videochiamate ecc. il lavoratore si è trovato ad essere sempre reperibile e a inseguire le comunicazioni, impattando negativamente sull'equilibrio vita-lavoro (28%)
Insomma, oltre che rispondere alle mancanze di infrastrutture e offrire dotazioni tecnologiche adeguate, il punto nevralgico dell’applicazione dello smart working è costituito dallo sviluppo di un nuovo codice di comportamento rispettoso, con nuove abitudini da stabilire tra azienda e lavoratore e tra i lavoratori stessi. Ma aziende e dipendenti sono pronti?
Approfondisci l’andamento dello smart working durante il lock-down
Un cambio di prospettiva: dall'orario al progetto è il vero lavoro agile
Il cambiamento più significativo è la nuova mentalità che lo smart working richiede: la difficoltà più grande nella sua applicazione, infatti, è la resistenza culturale.
Fare smart working non significa lavorare da casa con orari flessibili, bensì lavorare per obiettivi concordati con la propria azienda scegliendo come, dove e quando portarli a compimento: tutto un altro concetto rispetto all'essere presenti per 8 ore in ufficio.
«Serve una rivoluzione culturale, deve cambiare la cultura di gestione aziendale e la contrattualistica del lavoro»: ecco come riassume questo cambiamento epocale Marco Bentivogli, ex segretario dei metalmeccanici della Cisl ed autore del libro In dipendenti - guida allo smart working, ospite insieme a Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio smart working del Politecnico di Milano durante la trasmissione radiofonica 24Mattino del 21 settembre.
Secondo Bentivogli, lo smart working è un percorso di innovazione: non è ancora possibile tirare le somme sui suoi risultati perché ancora non lo abbiamo sperimentato a pieno. Ad esempio, il lavoro di gruppo è da tutelare e serve ancora di più la formazione per imparare a rapportarsi al gruppo in modo sano; ancora, smart working non significa lavorare da casa, ma è possibile che le aziende scelgano mini-uffici dislocati sul territorio o che si lavori in coworking. Insomma, dietro alle apparenti difficoltà dell’applicazione dello smart working si nascondono molte opportunità, come la rivitalizzazione delle periferie.
Anche il dottor Corso afferma che «non siamo pronti: si confondono ancora gli effetti del Covid con il cambio di un modello organizzativo che dobbiamo ancora vedere». In più, continua, «tante sono le forze reazionarie: contro ogni evidenza si cerca di imbrigliare questo cambiamento per tutelare alcuni interessi e privilegi. Il modo giusto di affrontare lo smart working è invece accompagnare il cambiamento in modo intelligente: le prospettive positive sono molto superiori rispetto i necessari aggiustamenti».
Lo smart working e le città: un cambiamento di enorme portata
Oltre all'impatto diretto sul mondo del lavoro dipendente, non dobbiamo dimenticare che lo smart working coinvolge tantissimi aspetti, compreso quello delle città e delle attività commerciali.
Le metropoli hanno già iniziato a fare i conti con lo spopolamento dei centri solitamente deputati al lavoro: l’esempio di Milano è emblematico, con il sindaco Sala che ha posto in grande evidenza le contraddizioni di questo periodo, con bar e tavole calde vuote e negozi che lamentano la mancanza di passaggio.
Al contrario, però, le periferie, le aree rurali e in generale il sud Italia potrebbero beneficiare immediatamente della possibilità di lavorare anche a migliaia di km di distanza dalla sede della propria azienda. Ragionando a lungo termine, poi, questo impatto positivo ricadrebbe anche su chi ora sembra perderci: veramente vogliamo città del futuro intasate e viste come unica meta di lavoro? Meno persone che si spostano verso gli uffici significa meno pendolarismo quotidiano, meno traffico e inquinamento: una smart city del futuro, come Milano si candida a essere, non può restare ancorata a vecchi paradigmi, ma è necessario che istituzioni e aziende armonizzino il cambiamento, aiutando chi ora è in difficoltà a reinventarsi.
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